Un approfondimento al giorno per ‘organizzare la speranza’, #20

Qualche settimana fa abbiamo parlato della situazione delle carceri in Italia, quando il tema era drammaticamente sotto i riflettori a causa delle rivolte scoppiate in diversi penitenziari in seguito all’accertamento dei primi casi di Coronavirus tra i detenuti.

Oggi torniamo sul tema lanciando una provocazione: viviamo una condizione di isolamento dovuta alla quarantena che per noi costituisce un’eccezione senza precedenti, e comporta gravi problemi sociali, economici e psicologici (a questi ultimi dedichiamo un’analisi più avanti in questa newsletter); ma è una condizione che fa invece parte della quotidianità, per diversi aspetti, delle persone private della libertà.

Abbiamo interpellato su questo il prof. Luca Decembrotto del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, che ci ha parlato di limitazione della libertà, delle difficoltà specifiche e ulteriori che affrontano le persone detenute in questo momento e di come tutto ciò sia difficilmente coerente con il principio della finalità rieducativa della pena.

“Senza rendercene conto ci siamo ritrovati ristretti. Tutte e tutti. Non solo reclusi nelle nostre case, per chi ce le ha, ma propriamente ristretti, “sacrificati” in uno spazio minore di quello necessario, privati di alcuni luoghi pubblici, soggetti ad alcune restrizioni della nostra libertà personale, allontanati dalle abitudini più varie e da molti, se non tutti, i nostri affetti. Viviamo giorni in cui continui provvedimenti provvisori limitano il nostro agire (e la nostra libertà) per necessità e urgenza della situazione contingente.

C’è chi nell’otium sta riscoprendo sé stesso e dedicandosi a propri interessi, c’è chi si è convertito allo smart working, c’è chi sfrutta la situazione per dedicare tempo agli affetti domestici o esplorare le potenzialità della tecnologia, che oggi può effettivamente accorciare alcune distanze. C’è anche chi sta vivendo forti disagi in questa situazione di restrizione, come chi si è trovato con figli piccoli obbligati a rimanere in casa, chi ha parenti anziani o con disabilità che richiederebbero specifici sostegni oggi non più garantiti. E c’è anche chi sta soffrendo, soprattutto chi è costretto a vivere in spazi inadeguati (magari perché troppo piccoli o non pensati per essere vissuti 24 ore continuativamente per giorni) o insicuri (qui il pensiero corre alla violenza domestica come massima espressione di insicurezza). C’è chi una casa non ce l’ha e non può rimanerci (e anche qualcuno che un luogo comune per vivere ce l’ha eppure lo rifiuta, forse per incomprensione, disinteresse o perfino per rabbia nei confronti di chi finora lo ha lasciato in quella condizione e adesso chiede altre strette osservanze). C’è chi non regge tutto questo e le alienazioni che comporta, dando sfogo alle proprie angosce e talvolta sviluppando psicosi, anche gravi.

Un parallelismo interessante con questi vissuti si può trovare all’interno delle carceri. Il sistema detentivo proietta il recluso in un mondo altro, in cui la normalità è sospesa, al pari di una serie di libertà: pochi colloqui, abitualmente sei al mese di un’ora ciascuno, poche chiamate, un colloquio telefonico alla settimana della durata massima di dieci minuti, poco spazio per sé, essendoci attualmente una nuova (e disomogenea) condizione di sovraffollamento con 61.230 su 50.931 posti regolari (dati del Ministero della Giustizia, al 29 febbraio 2020), per fare tre esempi. Anche in quel luogo si ha paura. La si ha perché da un giorno all’altro i volontari e quasi tutti i professionisti esterni al carcere che regolarmente entravano per assicurare attività come lavoro, istruzione (scuola, università, corsi di formazione professionalizzante), sport, teatro e molti altri sono scomparsi. Veri e propri mediatori che oggi, per necessità sanitarie, non possono entrare. La preoccupazione cresce perché i colloqui sono sospesi. Un proprio caro potrebbe essere immunodepresso o anziano e alla persona privata della libertà non è stato permesso avere notizie. Si è aggravata la situazione dei figli che crescono con le madri in carcere, vivendo oggi restrizioni ancora più severe, quanto quella di chi i figli abitualmente li incontra di rado e ora non può più vederli (facendogli perdere importanti momenti con le proprie figure genitoriali).

Tutta questa tensione ha portato a forti scontri e a precise richieste da parte di associazioni come Antigone, preoccupate per le tante segnalazioni di violenze, che forniscono al Governo alcune proposte per ridurre il numero di detenuti e proteggere i più vulnerabili, ridurre l’isolamento di coloro che rimarranno in carcere e fornire una strumenti di prevenzione del contagio al personale penitenziario. Ci sono detenuti con pena definitiva inferiore a tre anni che potrebbero scontare una misura alternativa al carcere (già previste dalla legge). Ci sono detenuti in attesa di giudizio e non pericolosi, che potrebbero attendere la sentenza agli arresti domiciliari. Ci sarebbe da informare la popolazione privata della libertà, trattandola da adulta, oltre a formare il personale penitenziario alle innumerevoli sfide provocate da questa emergenza, fornendo loro anche strumenti e ausili efficaci di prevenzione.

C’è un evidente parallelismo tra la segregazione che si sta vivendo dentro le carceri e quella vissuta d’improvviso fuori. Pensare “meglio dentro” o “se la sono cercata” non basta. La pena, quantomeno per la normativa e la Costituzione italiana, non comporta sofferenza, ma è finalizzata al reinserimento sociale. Tutto ruota (o dovrebbe ruotare) attorno a questo obiettivo. Gli altri diritti, come quello alla salute, non sono sospesi. Sperimentare l’inalienabile sofferenza esercitata dalla costrizione e dal vivere ristretti in spazi angusti o sovraffollati, potrebbe farci comprendere l’inutilità di questa sofferenza. Non è un’esperienza da cui si esce migliori, né maggiormente responsabili. Semmai più arrabbiati, disadattati ed esclusi dal resto della società. Si può partire dai vissuti di questi giorni per comprendere come allargare le maglie delle misure alternative alla detenzione e applicare sempre più sanzioni sostitutive per i reati meno gravi sia una strada ragionevole per il benessere dell’intera comunità.”

 

Abbiamo chiesto ai professionisti dell’associazione Approdi, che insieme al Laboratorio Salute Popolare e Mediterranea Saving Humans ha lanciato un servizio di supporto telefonico psicologico (qui tutte le informazioni) su questo tema, di descriverci quali sono le conseguenze psicologiche correlate alla condizione di isolamento:

“In primo luogo, la durata della quarantena e la sua mancata delimitazione nel tempo, possono favorire nella collettività sintomi da Disturbo Post-Traumatico, comportamenti fobici di evitamento e rabbia. Inoltre, la paura di essere contagiati e di poter contagiare gli altri, in particolare i membri della propria famiglia diventa maggiormente presente.
In effetti, visto lo straordinario contesto in cui ci troviamo attualmente, diversi fattori contribuiscono a sovrastimare la percezione del rischio. Ciò crea uno stato di allerta individuale costante e incrementa la frequenza di pensieri e preoccupazioni ricorrenti, i quali, a lungo termine possono cronicizzarsi ed impattare sulla salute dell’individuo. 

Durante tale periodo, permangono ugualmente disregolazione emotiva, basso tono dell’umore senso di colpa e ottundimento. L’eventuale riduzione dell’attività professionale o la perdita temporanea del lavoro provocate dalla misura di isolamento restrittivo sono fonte di angoscia e possono provocare ansia e rabbia anche molti mesi dopo.

Da ultimo possono emergere comportamenti di stigmatizzazione nei confronti di coloro che sono affetti da COVID19 e che sono posti in isolamento fiduciario. Tali comportamenti possono minare alla coesione sociale e spingere le persone a nascondere la patologia. Questo stigma nei confronti di coloro che sono guariti dalla malattia, può persistere anche nel periodo successivo alla quarantena”.

Da qui l’importanza di valorizzare e amplificare tutte le iniziative che hanno lo scopo di rinsaldare le reti sociali e assistere le categorie di persone più fragili.

Concludiamo con alcune letture per l’approfondimento del tema delle condizioni di vita in carcere, consigliate da Luca Decembrotto:

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