TI RACCONTO UNA STORIA
È il 5 aprile 2009 a L’Aquila e passando per via XX settembre si vede la Casa dello Studente; simbolo della vita universitaria della città. Edificio a sette piani, diviso in tre ali, che dovrebbe ospitare 120 ragazzi, ma oggi ne ospita di meno. Ne ospita di meno perché sono mesi che a L’Aquila la terra trema. C’è uno sciame sismico che va avanti da dicembre, sempre più scosse, sempre più ravvicinate fra loro, 57 solo dal 31 marzo ad oggi, e alcuni studenti non si fidano a tornare in quell’edificio dall’aria così precaria e instabile. Ci rimangono quelli che, nonostante la paura, sperano che le scosse si dissolvano senza danni, perché fanno fatica a tornare a casa, alcuni sono sotto esami, altri non vogliono dare preoccupazioni inutili ai genitori. Ci rimangono anche perché nei giorni precedenti hanno chiesto che venisse fatto un controllo all’edificio, viste le crepe che si sono aperte nelle pareti, e sono stati rassicurati, anzi di più, è stato assicurato loro che l’edificio non crollerà. Effettivamente devi sudartelo talmente tanto un posto lì, che sarà sicuramente un luogo sicuro, ben costruito, apposta per accogliere alcuni fra gli studenti migliori dell’università.
Si fa sera e le scosse aumentano di intensità: una alle 23:00 di intensità 4.1 sulla scala Richter, un’altra alle 01:00 di intensità 3.9. Alcuni studenti spaventati decidono di passare la “Notte bianca della casa dello studente” in piazza, fuori da lì, ma altri non se la sentono. Marco Alviani non vuole uscire, ma sa che sua mamma è in pensiero allora lascia il cellulare acceso. Angela Cruciano chiede al suo ragazzo, il vigilante della casa Francesco, di dormire con lei, mentre Luciana Capuano e la sua compagna di stanza chiedono a Davide Centofanti di scendere a far loro compagnia. Tutti cercano di appoggiarsi agli altri, la paura se condivisa magari è più leggera, come se lo stare insieme basti a fermare la terra. Alessio Di Simone accompagna a casa la fidanzata, ma poi torna per stare con il suo compagno di stanza e insieme decidono di dormire con le scarpe addosso, pronti all’eventuale fuga. Hussein Hamade per gli amici “Michelone” pensa che se non è stato ucciso negli attentati israeliani di sicuro non può morire in una cittadella del centro Italia e quindi decide di restare.
Alle 03:32 dopo un’interminabile scossa di magnitudo 5.8 crolla l’ala nord dell’edificio e i piani si schiacciano uno sull’altro facendo otto vittime.
Il terremoto che ha colpito L’Aquila 11 anni fa ha causato 309 vittime e il crollo di diversi edifici, tra cui la Casa dello Studente. Le indagini fanno emergere che i cedimenti, come quello dell’ala nord dello studentato, sono dovuti a grave negligenza nella costruzione e nei controlli sulla sicurezza degli edifici. È per questo che non si può ritenere che l’emergenza sia causata dal solo terremoto, e che le conseguenze negative di questo evento non siano in qualche modo evitabili.
IL VIZIO DELL’EMERGENZA ETERNA
“Tra le tende dopo il terremoto / i bambini giocano a palla avvelenata, al mondo, ai quattro cantoni / a guardie e ladri, la vita rimbalza / elastica, non vuole / altro che vivere”
Gianni Rodari, da Il cavallo saggio , Einaudi, 2011
Salò, 1901. Nicastro, 1905. Canolo, 1907. Messina e Reggio Calabria, 1908. Calitri, 1910. Linera, 1914. Avezzano, 1915. Giarre, 1918. Vicchio, 1919. Fivizzano, 1920. Colli Albani, 1927. Bisaccia e Lacedonia, 1930. Gibellina e Salaparuta, 1968. Ancona, 1972. Gemona del Friuli, 1976. Irpinia, 1980. Umbria, 1997. Molise, 2002. L’Aquila, 2009. Emilia Romagna, 2012. Amatrice e Accumoli, 2016.
Il terremoto non è una emergenza. Il terremoto non è proprio una emergenza. Un terremoto non è assolutamente una emergenza. Ciclicamente la terra si alza e si abbassa, ricordandoci che abitiamo sulla crosta galleggiante di una terra talvolta assolutamente instabile: questo Paese, nel bene (poco) e nel male (molto), è anche i suoi terremoti. Nove anni sono passati dal terremoto de L’Aquila. In nove anni abbiamo cambiato cinque volte presidente del consiglio, in nove anni abbiamo conosciuto la crisi economica, in nove anni i neonati di allora sono diventati degli scolari di quarta elementare (molti di loro non hanno mai conosciuto una vera scuola). Perpetrando la memoria di quei giorni terribili, seminati di grande dolore, è necessario portare avanti la ricostruzione materiale e non. È necessario soprattutto che la memoria sia portata avanti anche da coloro che alle 3.32 del 6 aprile 2009 dormivano e hanno continuato a dormire fino alla mattina dopo, quando alzatisi hanno saputo dai telegiornali della scossa tellurica che colpì L’Aquila. Di quel giorno tutti gli aquilani, volenti o nolenti, se ne ricordano, quanto meno in forma intima e privata. E noi altri? Noi altri dobbiamo ricordare le immagini della terra che si è alzata, delle tegole che sono diventate marciapiedi e il turbinio di parole che ha seguito quei giorni. Dobbiamo ricordare ciò che è stato fatto e ciò che non è stato fatto, per sapere ciò che dovremo fare, esercitare la memoria creando un patrimonio coltivato e acquisito, resistendo al flusso rapido della quotidianità.
La sola logica emergenziale non basta al territorio aquilano e men che meno al territorio italiano: è una logica che promette abbandono e marginalizzazione, perdita in termini di qualità della vita.
In ogni terremoto si crea un prima e un dopo: una cesura nella vita delle persone, che separa la biografia di ognuno. Prima c’era una esistenza serena, sì, certo, con qualche difficoltà, ma così è la vita. Dopo c’è la disgregazione, la perdita dei legami, delle persone, dei luoghi. Dopo la scossa, interminabile, che ti ricopre di polvere, c’è la nostalgia e, talvolta, la rimozione del ricordo. Ricordo che è necessario trasmettere proprio in virtù di quella insufficienza della logica esclusivamente emergenziale: i terremoti tornano, per quanto questo possa non piacerci. La cesura comunque si crea anche fra coloro che del terremoto hanno saputo approfittare (o che altri vedono come approfittatori) e coloro che hanno invece perso (o ritengono di avere perso) più degli altri, sottolineando quanto sia diffusa una percezione di ingiustizia e quanto sia alta la conflittualità sociale (a tal proposito vedasi le ricerche portate avanti dal laboratorio Cartolab dell’università dell’Aquila). Nell’immediatezza del doposisma le urgenze e i problemi della ricostruzione materiale sono pressanti e sembrano incombere molto più dei problemi della ricostruzione sociale, che si rivelano successivamente. Non abbiamo imparato e non abbiamo ricordato abbastanza, evidentemente, il tremendo dell’Irpinia, di cui una donna, Arcangela Garofalo, racconta:
«Da quel momento io ho vissuto ventiquattro anni di rifiuto, una sorta di risentimento verso il mio paese, mi sentii sradicata, vedevo la disgregazione di quella comunità e mi sentivo comunque colpevole per la mancanza del mio contributo alla comunità. Per ventiquattro anni ho avuto un rifiuto quasi totale a fare qualsiasi forma di vita sociale, e ancora oggi sento la stessa difficoltà»
(testimonianza in Stefano Ventura, Il terremoto dell’Irpinia del 1980. Storiografia e memoria , in Italia Contemporanea, 2006, p. 253).
Una scossa di terremoto dura pochi secondi: certo, sembrano interminabili, ma sono pochi secondi. In quel momento che armi di difesa si hanno? Poche, nessuna? È per questo che è fondamentale organizzare la difesa dal terremoto lungo il tempo, investendo in modo costante sia economicamente che culturalmente, concentrando l’attenzione sulla progettazione di tutto quello che aiuta a diminuire il rischio prima dell’evento. È importante parlare prima di cosa fare quando il terremoto arriverà – perché sì, arriverà-, dato che una volta arrivato la narrazione si riempie delle poche storie incredibili, dà il resoconto della situazione per qualche mese e poi tutto cade quieto nell’oblio, in un placido silenzio che sembra attendere il sisma successivo.
Forse per curare le fratture createsi con la scossa ci vorrà del tempo e altri modi di pensare, ma quello che possiamo fare subito è raccogliere le memorie sociali di coloro che il terremoto l’hanno vissuto e ideare un modo nuovo di pensare al territorio sismico, una strategia di lungo corso, attenta a non lasciar cadere le comunità in un sentimento autodistruttivo e creando le opportunità di riappropriarsi delle decisioni, di prendersi cura dei propri luoghi, di tornare a vivere. È essenziale che sulle popolazioni colpite non si abbatta il paternalismo e quindi è importante che vi sia ascolto, tenendo conto che ognuno ha capacità differente di farsi sentire. La condivisione delle scelte è la condizione di una ricostruzione sostenibile: è una sfida non facile, ma al contempo una grande opportunità.
Presidio Universitario di Libera Bologna “I ragazzi della Casa dello Studente”
Le foto sono del viaggio del Presidio a L’Aquila nel 2018