Sono giorni difficili, per tutte e tutti. Come Libera Bologna ci sentiamo parte di una comunità che ha sempre fatto della cultura, dell’approfondimento, dell’impegno il suo ‘pane quotidiano’. Come tante e tanti altri ci sentiamo spaesati in un momento in cui – giustamente – dobbiamo rallentare, cambiare modalità di vita, per tutelarci e tutelare chi vive insieme a noi.
Facciamo nostre le parole de Il Corsaro, che invita a organizzare la speranza, contro la paura: “Quello che possiamo fare è dare un messaggio di solidarietà, di determinazione e di speranza, in un momento difficile. Invitiamo tutti e tutte a non cedere allo sconforto, non farsi prendere dal panico, impegnare nel modo giusto le tante ore che dovranno essere passate senza il normale contatto con gli altri”. Per questo, nei prossimi giorni, ogni mattina invieremo spunti di approfondimento, consigli di lettura e di ascolto su mafie, corruzione, sfruttamento, caporalato, giustizia sociale. Lo facciamo online, tramite questa newsletter, per condividere i nostri temi e restare insieme.
Oggi parleremo di carceri e della situazione detentiva in Italia.
L’emergenza CoVid-19 ha colpito anche le carceri italiane dove sono state applicate le misure preventive previste dal dpcm del 4 marzo, come si vede dalla mappatura di Antigone. A causa di queste nuove restrizioni negli scorsi giorni si sono verificate diverse rivolte nelle case circondariali, in ultimo, ieri, anche alla Dozza. Rivolte che hanno provocato morti e feriti e hanno messo in luce il problema di queste strutture sovraffolate di persone isolate, dove non è possibile mantenere le distanze minime di sicurezza e impedire l’entrata di soggetti che hanno contatti con l’esterno (pensiamo ad esempio agli agenti della polizia penitenziaria). Secondo l’operatrice del carcere foggiano Annalisa Graziano, gli istituti di pena si sono trasformati in deserti in tempesta, dove il rispetto delle regole viene percepito come negazione dei propri diritti.
Diverse associazioni sensibili al tema stanno chiedendo misure alternative al carcere, come l’amnistia o l’indulto. “Il carcere, che vive già di per sé una forte esclusione – scrive l’Associazione Antigone – va preservato da interventi restrittivi che non siano strettamente necessari allo scopo. L’isolamento in carcere può portare alla disperazione. Vanno prese misure urgenti per trasformare la limitazione dei colloqui o degli ingressi dei volontari in un ampliamento delle telefonate e di attività interne che non presuppongano nuovi ingressi. Vanno ridotti i numeri della popolazione detenuta, adottando provvedimenti capaci di ridurre il flusso in ingresso e di aumentare quello in uscita”.
Ancora una volta questa emergenza ci rende evidente che i confini sono labili quanto più sono fisici e dati per scontato. Ciò e chi è “laddentro”, nelle mura del carcere, ci è sempre sembrato per sua natura isolato, separato, quasi estraneo alla città che è fuori. Un luogo con cui noi non abbiamo e non avremo mai a che fare, anche se in realtà una strada che collega il fuori e dentro c’è, anche se non siamo abituati a percorrerla.
Nel carcere ogni mattina entra Elisabetta che insegna matematica a Nisida, l’isola che ospita l’Istituto Penale Minorile di Napoli. «Ogni mattina la sbarra si alza, la borsa finisce in un armadietto chiuso a chiave insieme a tutti i pensieri e inizia un tempo sospeso, un’isola nell’isola dove le colpe possono finalmente sciogliersi e sparire». Elisabetta, prof. protagonista di Almarina, l’ultimo romanzo di Valeria Parrella, entra a Nisida lasciando fuori il giudizio sulle sue studentesse e su se stessa, per tutte, quello, deve essere un nuovo punto di partenza, «la possibilità di espiare, dimenticare, ricominciare». Elisabetta è preoccupata quando finisce il suo lavoro, vede andar via le sue studentesse, e anche se a volte è un buon segno, pensa: «torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui».
Quella preoccupazione è anche il segno di quanto il suo lavoro sia fondamentale, non si tratta di insegnare espressioni o equazioni, ma di presentare nuove possibilità e stimolare la volontà di esplorarle. Con questo stesso obiettivo dal 2011 Libera ha avviato in diverse città italiane il progetto Amunì, rivolto a ragazze, tra i sedici e vent’anni, sottoposte a procedimento penale da parte dell’Autorità giudiziaria minorile. Amunì è un’esortazione in dialetto palermitano che si traduce in “andiamo”, “diamoci una mossa”, rivolto a giovani per invitarle a riprendere in mano i propri destini e le proprie vite, rimettersi in carreggiata e saper guardare la strada percorsa per darsi nuovi obiettivi (sul progetto: Salvatore Inguì, Sentieri erranti di antimafia, La ricerca, Loescher). A Bologna le volontarie del Presidio Universitario da diversi anni sono impegnate in un’attività di aiuto ed affiancamento allo studio alle persone private della libertà personale iscritte all’Università per cercare di perseguire e garantire il diritto allo studio. Per un approfondimento sui Poli universitari penitenziari delle diverse città italiani potete consultare “Università e carcere. Il diritto allo studio tra vincoli e progettualità” di Valeria Friso e Luca Decembrotto.
Uscire dal carcere è un “privilegio” raramente concesso, allora, l’unico modo per garantire, ora come ora, un valore rieducativo della pena è portare nuove opportunità all’interno degli istituti penitenziari. Nel film “Dustur” (Italia, 75’, 2015) Marco Cantarelli racconta del corso sulle costituzioni tenuto da frate Ignazio De Francesco e dal mediatore culturale Yassine Lafram nella biblioteca del carcere della Dozza, un dialogo creativo tra la Costituzione italiana e gli ideali, i valori e gli orizzonti culturali degli studenti coinvolti, perlopiù marocchini e tunisini.
Ma, in fin dei conti, la voce più rara da ascoltare è quella delle detenute stesse (fuorché mediata dalle associazioni o dagli organi di garanzia): «Sono trascorsi due anni dal mio addio alla galera eppure mi sono portato le sbarre della cella appresso e posso sentire ancora il loro peso sulla schiena», scrive Michele Maggio in “Comma 22” uno dei racconti vincitori dell’edizione 2019 del Premio Goliarda Sapienza, rivolto a scrittrici detenute italiane e straniere. Cliccando qui si possono trovare tre reading a cura di Luigi Lo Cascio di tre racconti inclusi nell’ultimo volume “Malafollia” promosso e realizzato dal premio.
Quasi ad una totale irrilevanza, infine, sono destinate le donne detenute a cui Susanna Ronconi e Grazia Zuffi dedicano il saggio “Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere”.
Concludiamo riportando le parole di Alessandra Cesaro all’interno del già citato Università e carcere di Friso e Decembrotto: «il tempo del carcere non può essere un tempo vuoto o un tempo di attesa della fine della pena, ma luogo dove il tempo assume dei significati attraverso le cose che si fanno: è questo il valore dell’istruzione».
A domani.