Sono giorni difficili, per tutte e tutti. Come Libera Bologna ci sentiamo parte di una comunità che ha sempre fatto della cultura, dell’approfondimento, dell’impegno il suo ‘pane quotidiano’. Come tante e tanti altri ci sentiamo spaesati in un momento in cui – giustamente – dobbiamo rallentare, cambiare modalità di vita, per tutelarci e tutelare chi vive insieme a noi.
Per questo, nei prossimi giorni, ogni mattina invieremo spunti di approfondimento, consigli di lettura e di ascolto su mafie, corruzione, sfruttamento, caporalato, giustizia sociale. Lo facciamo online, tramite questa newsletter, per condividere i nostri temi e restare insieme.
_________
Riprendiamo da dove ci siamo lasciate ieri, parlando di donne e mafia. Come si svolge la vita delle donne che incontrano, entrano, vivono o si scontrano con la mafia?
E se la mafia è oppressione e assenza di emozioni, cosa vuol dire per una madre vivere ed educare i figli all’anaffettività e mancanza di empatia?
“Che cosa pensano, che cosa sentono, in tutto ciò che fanno, individui che sono abituati a uccidere per denaro, con freddezza, come se si trattasse di un lavoro qualsiasi? E come si configura la convivenza stretta con individui simili, “mostri” di una normalità agghiacciante? Stando alle statistiche criminali, la prima categoria si compone quasi esclusivamente di uomini. Di conseguenza nella seconda categoria troviamo un alto tasso di donne.” (Siebert)
Opera di Giuseppe Fava
La mafia, per definizione, è un’associazione maschile e maschilista da cui le donne sono formalmente e praticamente escluse. Le donne che hanno ruoli molto importanti nella struttura dell’organizzazione sono in genere mogli, madri o sorelle dei boss mafiosi. Quando questi muoiono o finiscono in carcere, loro prendono in mano le fila del lavoro del marito e ne gestiscono i traffici e le attività. Tuttavia le complicità femminili sono anche parte della vita quotidiana: dalle donne che calano i cesti con la droga di contrabbando dalla finestra per passarla ai figli in strada, alle donne che rispondono al telefono e gestiscono le chiamate di affari. Antoinette Giancana ricorda come fosse sempre la madre a rispondere al telefono o al campanello “non importa quanto stanca o malata potesse essere”.
Al di lá dell’aiuto e del supporto alle attivitá del marito e agli affari della famiglia, quello della donna è un ruolo solitamente relegato alla gestione della casa e della vita familiare. Ombretta Ingrascì nel suo libro “Donne d’onore – Storie di mafia al femminile” ci dice: “Alla donna è stato storicamente affidato il compito di trasmettere il codice culturale mafioso, di incitare gli uomini a compiere vendetta, di fare da garante della reputazione maschile e da merce di scambio nelle politiche matrimoniali. Tutte funzioni che hanno contribuito a rafforzare la struttura socioculturale del sistema mafioso, favorendone la sopravvivenza nonostante le condanne penali.”
Si parla di vere e proprie complicità femminili, nonostante la pesante subordinazione all’arroganza del potere maschile. Calderone, pentito, dice “Le donne stanno bene nella mafia. Essere la moglie di un mafioso comporta godere di numerosi privilegi, grandi e piccoli, ed è anche in un certo senso una cosa impegnativa. Puó capitare di dover disporre, in alcune circostanze apparentemente innocue, della vita di una persona…” come nel caso della moglie di Nitto Santapaola la quale, corteggiata dall’ignaro titolare di una scuola guida, dovette valutare se egli si sarebbe meritato la morte o no.
A volte il desiderio di profitto prevale anche sull’affetto nei confronti del marito. Nick Gentile ricorda nel suo libro “Vita di Capomafia” “Nella stanza attigua alla mia, mia moglie con un gruppo di vicini, commentando il mio improvviso ritorno, diceva che ero venuto per distruggere la sua casa e, in preda ad un attacco di isterismo, cadde a terra svenuta. Ormai avevo inteso quelle terribili parole che suonavano disprezzo per me e mi convinsi che l’affetto tante volte dimostrato per me era illusorio e si basava solo sui dollari… ero diventato la pecora nera della mia famiglia”.
Ieri abbiamo provato a raccontare storie di donne che apertamente prendono posizione e si ribellano alla mafia. Ci sono anche casi in cui é il marito a intraprendere il percorso di pentito, a volte incitato anche dalla moglie. Anche in questi casi la donna ha un ruolo fondamentale, soprattutto a livello educativo. È lei che si occupa di riabilitare l’immagine del marito agli occhi dei figli e delle figlie, giustificando le sue scelte come un atto di valore e non di tradimento, affinché il suo ruolo di padre venga riconosciuto e sia un nuovo punto di partenza per una vita diversa.
Ci sono anche le storie, invece di donne che si sono distaccate e poste in rotta con la mafia a partire da sentimenti intrisi dei valori mafiosi stessi. ´E questa la storia di Serafina Battaglia, la prima donna testimone di giustizia. Dopo la morte del marito, Serafina incitò il figlio a vendicare il padre, ma qualche tempo dopo venne ucciso anche lui. Non potendo quindi ricorrere alla vendetta privata, “la vedova della lupara”, come veniva chiamata, collaborò con la giustizia. Per diversi anni si presentò in tribunale e testimoniò in vari processi con il temperamento forte e provocatorio dato da rabbia e sofferenza: vestita a lutto, si inginocchiava davanti ai giudici chiedendo giustizia e sputava contro il banco degli imputati. Sue le parole “Se le donne dei morti ammazzati si decidessero a parlare così come faccio io, non per odio o per vendetta ma per sete di giustizia, la mafia in Sicilia non esisterebbe più da un pezzo”. Ma la sua battaglia fu vana: gli imputati vennero assolti per insufficienza di prove e lei fu accusata di essere pazza e lasciata sola. La sua storia è raccontata in una puntata del podcast di Rai Radio 3 “Vite che non sono la tua”.
Così Renate Siebert introduce il suo libro che racconta delle moltissime e diversissime storie ed esperienze di donne nel contesto mafioso: “Le emozioni come risorsa, le parole che diventano pietre, il dolore che si libera dal tradizionale pudore e diventa domanda etica e questione politica: le donne le cui storie seguono sono unite da questo filo.”
A partire da questo spunto, infine, vorremmo anche menzionare le storie di due donne della mafia che a questa si sono fermamente opposte: Michela Buscemi, che perse due fratelli ed il cognato, e Vita Rugnetta che perse l’unico figlio, Antonino Rugnetta. I loro gesti, partiti da fortissimo dolore e rabbia, le hanno portate ad essere le uniche due donne costituitesi parti civili nel Maxiprocesso, assieme alle mogli, madri, sorelle di uomini di stato. Nonostante le loro forti scelte, furono abbandonate dalla famiglia nel primo caso, dalle persone del quartiere. Fallirono le loro attività commerciali per mancanza di clientela. E non ebbero esperienze facili neanche nelle istituzioni. Furono le uniche due parti civili nel maxiprocesso a non ricevere risarcimento per le spese del processo, perché non erano mogli di servitori dello stato, rischiando di non riuscire a pagare gli avvocati anche per le nuove difficoltà che la vita presentava. La loro perseveranza e forza sono raccontate nel libro di Anna Puglisi “Sole Contro la Mafia”. Forse possiamo descrivere le loro esperienze con le parole di Giovanna Gentile riferite alle lotte di donne “l’individuo, rimasto militante di sé stesso, sente di doversi ugualmente assumere delle responsabilità civili, per non farsi rappresentare da chi, di fronte ad una società civile debole, detiene i poteri forti, che nel sud sono extra-istituzionali e mafiosi”.
Chiudiamo riproponendo la riflessione che abbiamo fatto qualche mese fa e che ci ha portate a scegliere di usare il femminile plurale come atto politico e provocatorio nei nostri discorsi. Un femminile inclusivo, non costrittivo o normativo. Un femminile di accoglienza e di rottura, un uso politico del femminile che intende l’altra rispetto a ciò che ha sempre dominato. Lo facciamo celebrando il coraggio di quelle donne che da pochi anni stanno iniziando a fare la grande rivoluzione di liberazione di se stesse e delle proprie figlie e dei propri figli dall’oppressione ndranghetista, che stanno rompendo gli schemi del potere violento e virilista.
A domani!